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22 gen 2006Se Roma piange Canberra non ride

L'Editoriale di Nino Randazzo su “Il Globo” di Melbourne e “La Fiamma” di Sydney del 23 gennaio

                                                          
MELBOURNE - (Italia Estera) - Smettiamola una volta per tutte con la leggenda planetaria di unicità e primato internazionale dell’Italia per scandali nei settori pubblico e privato e corruzione di natura finanziaria, societaria, istituzionale, politica. Fra le tante indiscutibili distinzioni conferite da storia, cultura e natura, almeno sotto questo aspetto il Belpaese non emerge nel contesto mondiale per unicità o primato, semplicemente si allinea a un ordinario e generalizzato tenore di scadimento morale e civile che accomuna nel segno di una perversa globalizzazione il “primo” e il “terzo” mondo.
Abbiamo avuto, in ambito tutto italiano, Tangentopoli ed ora abbiamo Bancopoli. Si sa dei fiumi di denaro alimentati da mille colossali illeciti amministrativi o spremuti dalle tasche dei contribuenti o generati da risparmiatori truffati e lasciati sul lastrico per via di spericolati giochi in Borsa e inscrutabili quanto tortuose operazioni bancarie da codice penale, per poi sfociare in un reticolo di nababbi speculatori, di amministratori disonesti, di profittatori nella politica, nella funzione pubblica e financo nell’ordinamento giudiziario. Si sa di allucinanti vicende che hanno fatto il giro del mondo, come quelle targate SME, Cirio, Parmalat. Si sa che la campagna elettorale 2006 è stata forzosamente avviata su una malaccorta gestione del meccanismo regolatore di Bankitalia, sui tentativi falliti delle scalate della Banca Popolare di Lodi all’Antonveneta e del gruppo assicurativo cooperativistico Unipol alla Banca Nazionale del Lavoro, su una girandola di illazioni su come e quali meandri della politica e di conti in banca privati, nazionali e offshore, sarebbero finite le innumerevoli mazzette di centinaia di migliaia e milioni di euro balenanti a squarci, come fulmini in una tempesta, dagli interrogatori in carceri e procure di un piccolo battaglione di principi decaduti della finanza. E con ciò? Che ne facciamo? Un simbolo di primato negativo italiano, alla cui ombra rassegnarsi e autoflagellarsi? Neppure per idea! Forse mai come nelle circostanze odierne del mondo in cui si vive, merita d’essere riconosciuta e applicata la saggia verità del vecchio proverbio popolare: “Mal comune, mezzo gaudio”. Riempiono ormai intere biblioteche i volumi di indagini e documentazione sulla corruzione in ogni angolo del pianeta, c’è un pozzo senza fondo nei magazzini informatici, nelle memorie di computer, nelle trascrizioni di migliaia di ore di intercettazioni telefoniche legali e illegali. Non facciamo, quindi, dell’Italia un caso unico. Non c’é bisogno né spazio per riesumare dal calderone del “mezzo gaudio per il mal comune” le infernali indecenze della corruzione economica che avviluppa in una matassa inestricabile le Americhe e l’Africa, l’Europa e l’Asia. Approfittando della vicinanza fisica e temporale con una situazione di questi giorni, ed anche per insistere sul concetto che in uno studio di correnti comparate di corruzione universale l’Italia, nostra patria d’origine, non risulta né unica né prima, diamo un rapido sguardo alla nostra Australia, patria d’adozione. In quanto a “questione morale”, a rinuncia di princìpi elementari di etica nel pubblico e nel privato, in quanto a esplosione di bubboni di corruzione a vasto raggio, se Roma piange, certamente Canberra non ride.
C’era una volta (vale a dire che ora non c’è più) una cosiddetta “etica protestante” del lavoro e degli affari che imponeva, almeno su questa zattera europea in un mare asiatico, rigidi criteri di condotta individuale e collettiva. Ora, a incenerire il simulacro di una “esemplare distintiva unicità australiana”, dovrebbe bastare la commissione federale d’inchiesta sullo scandalo degli almeno 300 milioni di dollari letteralmente rubati fra il 1999 e il 2003, dall’Ente Granario Australiano (l’Australian Wheat Board) al fondo fiduciario delle Nazioni Unite dell’Oil-for-Food, lo speciale “conto in mano a terzi” nel quale confluivano i proventi delle vendite di petrolio dell’Iraq di Saddam Hussein, colpito dalle sanzioni internazionali, e col quale dovevano venire pagati gli aiuti umanitari, in medicinali e vettovaglie (incluso, appunto, il grano australiano) al popolo iracheno flagellato da fame e malattie oltre che da una sanguinaria dittatura.
Il quadro che, nell’aula dell’inchiesta a Sydney presieduta dal veterano d’alta magistratura Terence Cole, si va delineando già dai primi cinque giorni d’interrogatorio del direttore generale dell’Ente Granario, Andrew Lindberg, non ha precedenti nella storia australiana, ma si presta con precisione a fungere da spartiacque nell’evoluzione del costume morale, ad inserire l’Australia nel solco mondiale della corruttela elevata a sistema.
La dirigenza di un ente, prima pubblico e poi privatizzato, al quale si concede fino a questo momento il monopolio assoluto del piazzamento di grano sui mercati mondiali, che riesce a vendere, col permesso ufficiale del governo di Canberra e delle Nazioni Unite per ogni singola spedizione, partite di frumento al regime iracheno di Saddam Hussein per un valore di oltre un miliardo e mezzo di dollari, e che per quattro anni presenta all’incasso presso il fondo delle Nazioni Unite fatture gonfiare del dieci e fino al 20 per cento, la “cresta” con cui compensare i favori dei satrapi di Baghdad. Che cerca, e trova, corrieri, agenti segreti, istituti bancari, persino una fittizia società di trasporti in Giordania, per fare giungere a destinazione in Iraq il prezzo, ingente, stimato conservativamente a 300 milioni di dollari, della disonestà e della garanzia di continue commesse. Il tutto quando già nel 2000 il governo canadese protesta all’ONU per l’impossibilità di vendere grano all’Iraq a causa del sistema di tangenti instaurato dall’ente rappresentativo dei produttori australiani; quando nel 2002-2003 il primo ministro di Canberra Howard e il ministro degli Esteri Downer tuonano a New York e Washington contro il regime di Saddam Hussein, alla vigilia di allearsi agli anglo-americani nella nuova guerra all’Iraq; quando un fascio di promemoria interni dell’Ente Granario esibito alle prime sedute dell’inchiesta indica che c’era un costante contatto con il Ministero degli Esteri di Canberra, e che erano state date specifiche istruzioni per “dissociare il commercio di grano dalla politica nazionale australiana”; e quando, ancora, il governo federale pone un divieto a funzionari ministeriali di testimoniare all’inchiesta, mentre l’Ente Granario paga i premi di polizze assicurative di propri dipendenti contro i rischi di incriminazione per atti di corruzione nei confronti di pubblici ufficiali stranieri.
E siamo ancora alle prime battute di una sconcertante saga, al tentativo iniziale d’apertura di una classica scatola di vermi. Si dica e si pensi quello che si vuole. Ma nessuno con un minimo di buonsenso può sfuggire alla considerazione che la globalizzazione della corruzione ha raggiunto decisamente e in pieno anche il quinto continente. E alla considerazione che l’Italia, non tutta ma quella considerevole parte bacata oggi sul banco degli imputati, non è sola, anzi si trova in buona, per non dire pessima, compagnia.

NINO RANDAZZO

 




 
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