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25 gen 2006Australia Day: un compleanno e la ricerca di un’anima

L'Editoriale di Nino Randazzo su “Il Globo” di Melbourne e “La Fiamma” di Sydney del 26 gennaio

MELBOURNE, 25 GENN. - (Italia Estera) - In primo luogo s’impone una riflessione sull’immagine immediata della nazione, in questo 26 gennaio 2006, il 218esimo di fondazione dell’Australia, almeno secondo un calcolo ufficiale entrato nella tradizione anche se contestato da vari storici, che indicano date ed eventi alternativi più appropriati da commemorare per la giornata nazionale al posto di quella dello sbarco a Sydney nel 1788, quali l’arrivo della Prima Flotta del capitano Phillip il 18 gennaio a Botany Bay o il giuramento in veste di governatore dello stesso Phillip il 13 febbraio.

 
 Comunque sia, quella (Sydney) e quell’inizio del 1788 fra gennaio e febbraio restano la culla e la data di nascita dell’Australia europea. Oggi, anche se sotto la pressione demografica ed economica asiatica un po’ meno europea di allora e dei successivi due secoli, la nazione nata da un miserando carico di galeotti inglesi è decisamente un’isola felice. La “lucky country” dell’immaginario nazionale e internazionale. Sfuggita nell’ultimo trentennio ai colpi più violenti delle ricorrenti crisi economiche internazionali. Esente da rilevanti turbolenze sociali e fenomeni d’instabilità politica. Confortata da livelli occupazionali fra i più alti al mondo e da un elevato tenore di vita medio. Inondata da ripetute eccedenze di bilanci pubblici. Orgogliosa di un multiculturalismo veramente funzionante e diffuso. Sostenuta nei suoi sogni d’insaziabile sviluppo dall’insaziabile fame asiatica (cinese in primo luogo) dei suoi minerali, sui quali cavalca il Paese smontando per sempre dalla vecchia pecora.
 
  Buon compleanno, di tutto cuore, Australia felice del ventunesimo secolo, patria d’adozione per milioni di figli di tutta la Terra, italiani inclusi. Più che un augurio è la riconferma di una prima faccia visibile e tangibile della realtà. Tuttavia, come per la maggioranza degli individui fortunati e felici, o ritenuti tali, di questo mondo, anche per le nazioni alla realtà di facciata non corrispondono sempre situazioni allegre e piacevoli nel loro intimo. “Se a ciascun l’interno affanno / si vedesse in fronte scritto / quanti mai che invidia fanno / ci farebbero pietà”, scrisse il Metastasio. Non si può e non si deve esagerare adesso e parlare proprio di “pietà” per l’Australia odierna. Ma qualche piaghetta, ruga o brufoletto c’è proprio da scorgere sotto la seducente cosmesi e la vigorosa abbronzatura australe.
 
  In questa Australia del benessere è facile e bello, e naturale, adagiarsi con senso di gradimento, beatitudine e gratitudine. Specie se si arriva ora, o si è arrivati ieri l’altro, da altre tormentate realtà del mondo, vicine e lontane. Ma pigrizia e sonnolenza restano in agguato, minacciano di indebolire la fibra morale, la vivacità intellettuale,      un tessuto sociale inzuppato d’abbondanza data per scontata. Lo sfrenato consumismo di tipica marca americana è l’effetto più vistoso che si registra della globalizzazione, e insieme un segno di passività e subalternità culturale. La coscienza nazionale e il rendimento intellettuale rischiano di annebbiarsi, appiattirsi in un’uniformità materialistica. L’Australia ricca e gaudente è ancora alla ricerca di un’identità, di un’anima. E le smoderate forme e forze del consumismo non l’aiutano proprio in questo cammino.
 
  La scuola è tutta orientata ai tecnicismi di un’era post-industriale. Le università, moltiplicatesi da un capo all’altro del continente spesso con subitanea trasformazione da modesti istituti tecnici, sono diventate entità concorrenziali d’investimento e speculazione sull’arruolamento di centinaia di migliaia di studenti asiatici ad altissime rette.  Non sono più fucine di pensiero innovatore e creativo. Il prezzo dei loro corsi esclude un crescente numero di studenti australiani, per i quali una laurea finisce per costare dai trentamila ai cinquantamila dollari. E intanto i migliori cervelli emigrano, fuggono a ritmo sostenuto dall’isola felice, che un primo ministro australiano degli Anni ’60, Harold Holt, già allora chiamava “terra di mangiatori di loto”.
 
 Ricerca medica e scientifica, grazie anche al soffocamento delle discipline umanistiche in tutti gli ordini di scuola, godono di standard internazionali avanzati. Ma si denota un vago senso d’incompletezza, di vuoto, perché in quanto a creatività originale e duratura in lettere, arti, filosofia, non può dirsi che non se ne parla nemmeno, ma certamente se ne parla sempre di meno. Non sopravvivono successori, restano in una specie di statico Olimpo nazionale d’altre generazioni personaggi quali i poeti e scrittori Henry Lawson, Banjo Patterson, Katherine Susannah Pritchard, il filosofo politico Bob Santamaria, lo storico Manning Clark, e non più di un’altra mezza dozzina di pensatori e creativi. Niente allarmismi, ma preoccuparsi sì, perché il deserto, il peggiore, quello dello spirito umano, avanza.
 
  Il duecentodiciottesimo compleanno sta ad indicare che si tratta ancora di una nazione alla primissima gioventù, un intero continente con una popolazione che ancora non arriva a 21 milioni, e il giusto equilibrio fra materia e spirito, tra le profondità delle miniere e le vette dell’intelligenza umana, potrà e saprà trovarlo. E diventare per il mondo un porto di pace e un faro di luce del ventunesimo secolo.
                                                                                                                                                     NINO RANDAZZO



 
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