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27 mar 2011GIORGIO NAPOLITANO, LA PRIMA VOLTA DI UN DIRIGENTE DEL PCI IN AMERICA /di Beppe Nisa

Fu ospite di prestigiose università americane. Invitato già tre anni prima, nel 1975, in quella occasione il visto non gli fu concesso.
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di Beppe Nisa 
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ROMA, MARZO 2011 - Un comunista a New York. Non un comunista qualunque, ma un giovane comunista, Giorgio Napolitano, stimato e rispettato dalla dirigenza Usa, che 28 anni dopo salirà al Quirinale acclamato dall’Italia intera presidente della Repubblica.
Il 1978, ha visto Giorgio Napolitano ospite di prestigiose università americane. Quello  fu il primo viaggio di un dirigente del Partito comunista italiano in terra americana, al quale, per la prima volta, veniva concesso il visto di ingresso negli States.
 
Un evento eccezionale, se si pensa che si era ancora in piena guerra fredda e che il Muro di Berlino sarebbe crollato solo undici anni più tardi, rendendo più 'fluida' la comunicazione politica tra Est e Ovest del mondo. Napolitano era già stato invitato tre anni prima, nel 1975, ma in quell'occasione il visto non  gli fu concesso. E toccò al direttore del Centro studi europei dell'Università di Harvard, Stanley Hoffmann, esternare tutto il proprio rammarico per il 'niet' delle autorità americane: "Io ho protestato vigorosamente contro tale decisione, ma non ho semplicemente alcun mezzo per farla modificare. Posso solo sperare che questo errore verrà corretto nel prossimo futuro", come viene ricordato dallo stesso Napolitano in un lungo articolo scritto per Rinascita (la rivista del Partito Comunista Italiano) al suo ritorno dal viaggio negli Usa.
 
Bisogna attendere altri  tre anni. Nel 1978 alla Casa Bianca c'era Jimmy Carter, mentre l'Italia era alle prese con la tragedia del rapimento di Aldo Moro.
Racconta Massimo Franco nel suo libro «Andreotti. La vita di un politico, la storia di un' epoca»,  che erano i giorni della «fermezza» che veniva opposta alla «trattativa», alla cosiddetta «scelta umanitaria». Da una parte Andreotti, la Dc zaccagniniana, il Pci e il Pri; dall' altra il Psi di Bettino Craxi, un pezzo della destra Dc, i radicali, la sinistra extraparlamentare fino alle sue propaggini parabrigatiste. Nelle pieghe di quel periodo terribile, i giornali registrarono un piccolo fatto storico: storico soprattutto pensando a quello che sarebbe accaduto a distanza di ventotto anni, con l' elezione di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica. Mentre arrivavano i comunicati delle Br e le lettere di Moro dalla «prigione del popolo», Napolitano, allora membro della segreteria del Pci, andò negli Stati Uniti su invito di alcune università. All' epoca non era un fatto normale. L' invito c' era già stato il 24 marzo 1975. Stanley Hoffman, direttore del Center for European Studies dell' università di Harvard, aveva chiesto a Napolitano di tenere una serie di conferenze per far conoscere i comunisti italiani all' opinione pubblica statunitense. Ma poco prima della sua partenza, Hoffman gli aveva scritto affranto, annunciandogli che il Dipartimento di Stato «at the highest levels», ai più alti livelli, non aveva approvato quell' invito. Insomma, gli aveva negato il visto di ingresso negli Usa, anche per le pressioni negative di alcuni «Italian officials», riferiva nella sua lettera. In realtà, pressioni su Hoffman perché ritirasse l' invito, cosa che il docente si rifiutò di fare, e poi il veto erano arrivati da Helmut Sonnenfeld, il vice di Kissinger.
E' sempre Massimo Franco a raccontarlo: "Nel 1978 il Pci era nella maggioranza di governo. E a palazzo Chigi sedeva Andreotti, atlantista senza macchie: uno dei principali garanti della credibilità del partito di Berlinguer sul piano internazionale, se non altro per questioni di opportunità. E Napolitano, primo dirigente comunista di alto livello, poteva visitare quello che un giorno sarebbe apparso l' «Impero del Bene» occidentale. Fu ospite a Harvard, Yale, Princeton. Tenne una conferenza al Council on Foreign Relations di New York. Ebbe incontri a porte chiuse con la redazione del «Time Magazine».
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L' unico inconveniente fu la pubblicità negativa che fece in corrispondenza con il suo viaggio il deputato democristiano Massimo De Carolis, anticomunista coriaceo, legato alla destra del partito. Questo non sminuì né l' importanza di quella visita, né il ruolo non piccolo giocato dall' allora presidente del Consiglio: un comportamento per il quale Napolitano gli rimase sempre grato. Si desume da una breve lettera autografa di ringraziamento inviata ad Andreotti il 9 maggio 2006 dall' allora pioniere del Pci oltre Atlantico, poco prima di essere eletto capo dello Stato".
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A persuadere Napolitano a partire fu proprio Enrico Berlinguer, convinto dell'importanza politica di quella missione negli Usa. A quel viaggio ne seguirono altri e nel 1992 Napolitano raccolse le sue 'lezioni' americane nel libro 'Europa e America dopo l'89'.
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I limiti della visita, racconta Napolitano nell'articolo pubblicato su Rinascita, erano chiari: "Non si prevedevano, in particolare, né era mia intenzione sollecitare, incontri con esponenti del Congresso e dell'amministrazione. La novità e il significato dell'avvenimento stavano nel fatto stesso del rilascio del visto, per la prima volta a un membro della Direzione del Pci (moderato, n.d.r.) invitato in quanto tale negli Stati Uniti per illustrare la politica del Pci, e non come componente di una delegazione unitaria, di carattere parlamentare o regionale o comunale, per partecipare a una missione ufficiale, e stavano nella possibilità di un contatto diretto, di un confronto non superficiale, con alcuni ambienti qualificati".
Il primo impatto fu quello con il settimanale Newsweek per 'raccontare' l'Italia di quei drammatici giorni del rapimento Moro e per 'capire' il Pci, partito comunista 'anomalo' nel quadro delle forze politiche sotto il simbolo della falce e martello.
"Mi sembra - racconta ancora il futuro presidente della Repubblica - che si colga l'importanza dell'accordo intervenuto tra i partiti della nuova maggioranza, della loro ferma determinazione a respingere l'attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, dell'intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e del risultato che così si è ottenuto in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell'eversione comunque si presentino e si giustifichino".
Gli stessi temi, insieme a quelli della politica generale del Pci, torneranno in altri incontri con la stampa a New York, a Boston, a Washington, con una decina di top editors di Time e Fortune, con un gruppo di editorialisti del New York Times, con redattori del Washington Post. "E sempre - commenta Napolitano - mi colpirà l'essenzialità e concretezza di queste discussioni informali". In tipico stile Usa.
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Il prestigioso tour attraverso i templi del sapere americano inizia a Princeton. Le discussioni, racconta Napolitano "sono più distaccate, naturalmente, e acquistano maggior respiro". Conferenze sulla strategia e le prospettive della sinistra in Europa e sull'intervento dello Stato nell'economia. Poi, il dibattito con docenti e studenti.
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I tre giorni ad Harvard "sono ancora più intensi": al di là della conferenza e del successivo dibattito si susseguono le "sedute di domande" sugli impegni internazionali del Pci e dell'Italia, sulla via italiana al socialismo e il movimento comunista internazionale, sulle relazioni tra comunisti e socialisti in Europa, sulla politica economica del Pci
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Il futuro presidente della Repubblica, insomma, fa da ambasciatore della sinistra italiana, quella del Pci, in terra americana, gettando le basi per quelli che negli anni a seguire saranno la stima e il rispetto per la persona e l'uomo politico. In ambienti più riservati, dinanzi a uomini d'affari, giornalisti ed esperti, come il Lehman Institute e il Councile for Foreign Relations, "dalle domande traspare talvolta più nettamente la riserva o il sospetto. Ma mi sono fatto via via la convinzione - racconta Napolitano - passando dalle discussioni con la stampa alle Università a incontri di diverso tipo sia a New York che a Washington, di essermi imbattuto nelle questioni che in sostanza si pongono dovunque nei confronti del Pci e dell'Italia, al di là di un'estrema varietà di toni, di interessi e di livelli di informazione".
"E queste questioni - sottolinea l'allora dirigente del Pci - investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane; investono il nostro rapporto con l'Europa e l'Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a 'inquadrarci'; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. E' comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice".
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Beppe Nisa/Italia Estera



 
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